Sly: la recensione

Hanno litigato per tutti gli anni ottanta; potevano smettere ora che la battaglia arriva online? Ecco la risposta di Stallone alla serie Arnold.

 

Sly recensione

 

Curiosi di sapere tutto sull’uomo che le ha date a Mr. T? Ansiosi di scoprire come è arrivato in cima al mondo il veterano più zozzo della filmografia americana? Citando la fonte… “Nessuno può colpire duro come fa la vita”; vero, ma vale lo stesso anche per un docufilm tirato per i capelli e realizzato solo per restare in scia alla nemesi di sempre. Sly, il lungometraggio di Thom Zimmy sulle gesta del mitico Sylvester Stallone, l’uomo che dimostrò che per recitare non c’era bisogno di avere più di un’espressione facciale, risulta davvero superficiale e frettoloso.

Che poi il personaggio sarebbe stato pure da leccarsi i baffi: chiunque sia cresciuto negli anni ottanta non può esimersi dall’adorare, anche solo inconsciamente, la vacua povertà spirituale delle macchiette di Rocky e Rambo. Poteva essere un’occasione ghiotta per raccontare una società che, dopo le pippe mentali degli anni settanta, aveva solo voglia di vedere bicipiti d’acciaio e chiappe marmoree. Eppure è restato tutto un lungo inutile preliminare ben lontano dall’orgasmo promesso.

 

Siamo di fronte al solito racconto americano dell’uomo venuto dal nulla. Figlio di un padre bastardo fino al midollo e costretto a vivere nell’assoluta povertà economica e intellettiva, il giovane italo-americano, nato con un nervo del viso leso a causa di una complicazione al parto, inizia la sua scalata al successo dai teatri più sordidi di Brooklyn fino alla Hollywood dei dollari pesanti. E così, in mezzo a diverse immagini inedite (almeno quello!) dell’infanzia dell’uomo che da solo fu capace di sterminare l’intero Vietnam, è tutto un “nessuno mi voleva e nessuno mi capiva”. Porte in faccia, coltellate alle spalle e fallimenti in serie. Roba da deprimere Pollyanna, ma lui no. Lui è John Rambo cazzo! Lui è lo stallone italiano!

 

Sly recensione

 

Tra finzione e realtà, il docufilm mostra quindi la seconda parte, e cioè come arrivano i primi successi e poi come scoppia la Sylvester Stallone mania. E poi? E poi colpo di scena… la stella del cinema internazionale, sul tetto del mondo, inizia a cadere. Dalle stelle alle stalle… e tanti sbadigli. Mamma mia che noia mortale. Arrivano le registrazioni audio di uno sconsolato uomo di mezza età che ci spiega come la vita fino ai quaranta ti dà e dopo ti toglie. Arrivano le recensioni brutte dei critici crudeli e insensibili. Arriva la bancarotta finanziaria. Tutto finito? Eh no. Mica vorrete rinunciare al lieto fine?
Un gonfissimo e attempato Sylvester, infatti, ci prende per mano (o ce la stritola) e ci accompagna al finale di quest’opera piuttosto evitabile per rasserenarci sul fatto che, dopo aver girato I Mercenari, tutto sembra essere tornato a posto. Nuova fama, nuove produzioni e nuovi soldoni.

L’unico momento veramente degno di nota e toccante è quando il regista fa raccontare al divo di suo figlio Sage, collega attore in diversi film e scomparso prematuramente per una malformazione cardiaca. Un dolore visibile persino su quel volto di pietra. Per il resto, l’ora e mezza circa di durata di questo lavoro è giustificata solo se almeno una volta avete detto a denti stretti “Sono io che vengo a prenderti” o “Ti spiezzo in due”. Ci sono molti anni ottanta e tanta nostalgia.

Il viaggio indietro nel tempo è garantito. La qualità no.

 

Sly, 2024
Voto: 6
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