Il cinema italiano è pronto per un nuovo esordio alla regia: è la volta di Pilar Fogliati, impegnata a raccontare le donne di oggi.
Paola Cortellesi, Margherita Vicario, Michela Giraud: iniziano ad essere molte le donne registe in Italia, e questa è un’assoluta fortuna. Il punto di vista maschile ha saturato per anni le nostre sale (e i nostri occhi) ed è bene allargare gli orizzonti narrativi con nuove prospettive; c’è, però, da chiedersi se le lodevoli intenzioni siano rispettate: la risposta è tutt’altro che positiva. In questo clima generale di banalità e giovani aspiranti cineaste, non fa eccezione l’attrice romana, nata ad Alessandria, che scrive insieme a Giovanni Veronesi un lungometraggio di 108 minuti la cui (ambiziosa) intenzione è quella di restituire al pubblico le sfaccettature del gentil sesso in questo millennio.
Ottimo soggetto; ma era necessario svilupparlo copiando di sana pianta il primo Carlo Verdone? In effetti Romantiche non è altro che Un Sacco Bello in versione 2.0; una specie di Bianco, Rosso e Verdone con i tacchi o gli anfibi. Si tratta di un film ad episodi dove la Fogliati rappresenta quattro tipi diversi di femminilità del nuovo millennio tutti legati tra loro dalla necessità di ricorrere alla psicologa (eh, già questo lascia da pensare). C’è la fricchettona che sogna di piazzare la sua improbabile sceneggiatura “Olio su Mela”, c’è l’ingenua che stringe forte la sua borsa tra le braccia e sogna solo un matrimonio felice, l’arricchita un po’ puttanella dei Parioli e la ricca da generazioni completamente scollegata col mondo reale.
Ecco. Quest’ultimo personaggio è quello che salva tutta la baracca. Qui le battute sono nuove e funzionano davvero ma, soprattutto, raccontano, dietro ad un riso amaro, di una casta che esiste ma che tutti fanno finta di non vedere. Persone che non hanno bisogno di lavorare, al punto quasi di trovarlo disdicevole; persone che possiedono interi palazzi (e vite) e partono dall’oggi al domani per l’India come un normale individuo deciderebbe di fare un pic-nic a Villa Ada se spunta il sole.
Di per sé Pilar Fogliati, a differenza di qualche altra sua collega coetanea, di talento ne avrebbe (e già ne ha). E’ la commedia in sé ad essere alquanto stucchevole perché vista e rivista. Piccolo esempio: il ragazzo della pariolina lo tradisce con un’escort? Wow, che colpone di scena. La storia è poi infarcita di luoghi comuni che si potevano evitare. Altro esempio: la giovane cineasta che ci prova con la pulita studentessa del Dams è solo l’attualizzazione del produttore porco dei Vanzina che circuisce l’aspirante attrice. La storia dei ragazzi di Guidonia, infine, è semplicemente incomprensibile. Chi è che muore? Come? Perché sono tutti legati a questa persona che non c’è più? E perché nessuno lo spiega? Forse era finito l’inchiostro… o le idee.
Un po’ come quando a scuola si faceva la brutta copia per sistemare al meglio la struttura del tema, la sensazione su quest’opera prima è che ci sia una base da cui partire ma che manchi ancora il coraggio di staccarsi da un genere che ha scocciato tutti da almeno dieci anni.
Il punto più basso? Il cameo della cantante Levante nella parte di sé stessa. Una iattura di recitazione, dizione e apporto calorico alla trama. Parafrasando uno dei suoi più grandi successi… “che film di merda!”