E’ possibile raccontare un delitto atroce come quello di Avetrana con una fiction? Pippo Mezzapesa ci ha provato con quattro episodi.
Sono settimane che Groenlandia Film e il suo patron Matteo Rovere urlano ai quattro venti la gioia di vedere questo lavoro in cima alle classifiche di Disney+; ottimo per le loro tasche ma forse non altrettanto per chi ricorda questa vicenda come una delle più buie della cronaca nera italiana. Nella torrida estate pugliese del 2010 una ragazzina di 14 anni svanisce nel nulla di un paesino dimenticato da Dio e, dopo intense indagini, si scopre che giace senza vita in un pozzo di campagna orrendamente uccisa dalla cugina e dalla zia. Un pugno nello stomaco che non avrebbe saputo immaginare neanche Dario Argento e che invece, purtroppo, è accaduto realmente, a pochi chilometri dalla nostra serenità. Ed è forse questo il peccato originale della serie.
Qui Non È Hollywood mette in finzione una realtà troppo brutta per essere spettacolarizzata. La serie ripercorre le gesta di mostri esistiti e esistenti, ingigantiti in tutta Italia quando, con un cattivo gusto senza precedenti, siamo stati invasi da cartelloni pubblicitari che li ritraevano (incluso lo zio che nascose il cadavere e cercò di prendersi colpe non sue). Però attenzione! La questione morale non è su Avetrana “paese”, come ha cercato di farci credere il Sindaco che ha preteso e ottenuto che quel nome non fosse nel titolo in quanto lesivo della sua comunità. Lo sappiamo tutti che, come con Cogne ed altre piccole località diventate teatro di massacri, per l’italiano medio Avetrana resterà per sempre con la lettera scarlatta (fiction o non fiction). La questione morale è altra, è alta.
Sarah è una bambina che si sente sola, che elemosina confusamente amore da chi lo offre, che cerca di capire come diventare donna in un gracile corpo più simile ad una bambola per giocare. La violenza che subisce è insensata, immensa, esagerata, e non merita di essere tramandata in un prodotto fatto solo per incassare soldi e notorietà. Perché questo cerca una casa di produzione quando investe, senza nascondersi dietro ad altri intenti.
Il lavoro del regista, a dire il vero, è stato notevole. Gli attori, in perfetto stile americano, sono stati trasfigurati per essere l’esatta copia dei protagonisti (Cosima è impressionante). Una scelta da alcuni messa alla berlina ma che, in realtà, non è lontana dal lavoro che Charlize Theron fece nell’osannato Monster. La fotografia, poi, è curatissima e le inquadrature non sono mai banali. La soggettiva di Misseri sul trattore vale il prezzo del biglietto (che in questo caso è l’abbonamento alla piattaforma). Ma c’è troppo autore nell’orrore; troppo stile nello sconforto. Si tratta di qualcosa di davvero fuori posto, e che non va d’accordo con il dramma. Esempi? La goccia di vernice bianca che cade sul viso della madre di Sarah quando ne viene annunciata la scomparsa, le apparizioni della ragazza fantasma ai suoi carnefici, il paesaggio minaccioso prima dell’omicidio. Roba da dieci e lode se fossimo a scuola di cinema ma da zero spaccato nella scuola di tutti i giorni, dove dovremmo insegnare l’empatia e l’umanità ai nostri figli, non la fredda speculazione. La giovane protagonista cammina verso la casa dove troverà la morte e s’imbatte in una serie di sguardi torvi, inquietanti, quasi premonitori, di alcuni suoi compaesani. Ma davvero? C’è bisogno di sovrastrutturare un momento simile?
E non cerchiamo di giustificare il tutto citando esempi passati di questo genere: è tutto diverso. Nel caso di Yara (il documentario, non il film), infatti, lo scopo era di gettare dubbi sulla colpevolezza di Bossetti. La serie sulla Claps, poi, seppur fiction totale, raccontava la forza e l’amore di una famiglia nell’attraversare il dramma e nel cercare la verità anche dopo decenni. E invece cosa ci vuol dire Qui Non È Hollywood di Mezzapesa? Solo che lui, con la cinepresa in mano, è un asso. E allora che andasse a Hollywood, quella vera, a girare il nuovo Full Metal Jacket… faremo tutti il tifo per il suo talento. Ma lontano da qualcosa che doveva restare un fatto di storia e giornalismo e mai di intrattenimento.