Il disco dei Deep Purple datato 1996 che vede il debutto di Steve Morse alla sei corde che fu di un certo Ritchie Blackmore.
Ultimamente la mia ricerca di dischi vecchi e nuovi (più che altro vecchi) si è un po’ limitata; in primis per mancanza di soldi (dannazione) e poi perché il periodo di rodimenti vari (ri-dannazione) mi fa pure passare la voglia di ascoltare musica, e questo è preoccupante. Comunque, in questo marasma, non sono riuscito a resistere alla curiosità di accaparrarmi Purpendicular, un disco dei Deep Purple ormai datato 1996 e che vede il debutto di Steve Morse alla sei corde che fu di un certo Ritchie Blackmore. Ultimamente sono rimasto un po’ al di fuori delle news musicali ma mi sembra che la line-up dei Viola Scuro abbia subito altri cambiamenti in questi anni, addirittura con l’abbandono di John Lord! Ammetto di non essere informato al riguardo ma, nell’ultima visita al loro sito, non solo non ho visto tracce del barbuto e grandissimo tastierista-fondatore-leader, ma ho anche notato la presenza di un misterioso sostituto, tale Don Airey. Di più nin zò. Ma torniamo a Purpendicular.
A suo tempo ci fu molta attesa per il rimpiazzo di Blackmore e, in generale, per il nuovo lavoro di quello che era ormai arrivato ad essere il mark VII. Bene, cosa ne è venuto fuori allora? Innanzitutto la conferma di una triste verità che vale per quasi tutti i generi musicali: gli anni ’60 ma soprattutto ’70 e ’80 non ce li ridarà mai più nessuno. Purpendicular non è un brutto disco, ma (prima di digitare i nomi ripulisce la tastiera e si lava le mani con Champagne riserva 1714) In Rock, Fireball e Machine Head restano lontani, lontanissimi… e non poteva essere altrimenti, i miracoli non li pretendiamo da nessuno. Ci si accorge del passare del tempo, e il suono è pervaso da quel senso di “modernità” che in questo caso non è certo un aggettivo positivo. Intendiamoci, non si tratta di una stroncatura ma sapete com’è: quando leggi Deep Purple ti senti sempre autorizzato a pensare in grande. Arrivando al sodo, Purpendicular è un discreto lavoro di classico hard rock che, sebbene non faccia fare salti di gioia, presenta un gruppo che ha ancora delle buone cose da proporre. L’inizio è scoppiettante, e l’incipit coinvolgente di Vavoom: Ted The Mechanic (titolo strano a parte) è piacevolissimo. Ancora meglio la seguente Loosen My Strings, cadenzata e carica di feeling che non rinuncia però al suono duro della chitarra. Suono che invece “rovina” la altrimenti splendida Sometimes I Feel Like Screaming, che di fatto sarebbe una ballad grandiosa, se non fosse brutalmente interrotta da assurdi stacchi duri che, con il loro sound “allegro”, poco si amalgamo con l’atmosfera triste e malinconica (bellissima) creata dal resto del pezzo. Ho saltato a piè pari Soon Forgotten perché, forzata e ripetitiva come poche, se la potevano tranquillamente risparmiare.
Lascia piuttosto indifferenti anche Cascades: I’m Not Your Lover (e daje coi titoli strani), mentre The Aviator è un bellissimo intermezzo country che fa il paio con Rosa’s Cantina la quale, anche se nettamente inferiore, è particolare e giocata tutta su un unico giro di basso. A questo punto, però, il giocattolo si rompe e le quattro tracce seguenti segnano inesorabilmente il calo. Avete presente la classica canzone che ascoltate due o tre volte appena avete comprato il disco, giusto per sentire com’è, e che poi non riascolterete mai più in vita vostra? Insomma, quella che non finisce nelle raccolte e che, di norma, non viene mai neanche rifatta nei concerti? Bene, i Purple ne infilano ben quattro di seguito e, secondo me, sono decisamente troppe se ci aggiungiamo anche la succitate Soon Forgotten e I’m Not Your Lover. Il finale, per fortuna, è decisamente risollevato da The Purpendicular Waltz, un ottimo brano cadenzato e intenso che dà nuovamente respiro dopo l’apnea delle quattro tracce precedenti.
Che dire, nel complesso le buone idee ci sono ma sono accompagnate anche da qualche passo falso e, anche se tutti gli elementi si comportano bene nei rispettivi ruoli, manca quel gusto per l’improvvisazione e quelle chicche strumentali che tanto ci avevano deliziato nei dischi degli anni d’oro, ma è inevitabile che sia così. In particolare mi è mancata molto l’ugola potente del miglior Gillan ma, d’altra parte, gli anni passano per tutti; e poi cosa possiamo chiedere di più a coloro che sono sulla breccia da oltre 30 anni e hanno già scolpito pagine e pagine di storia del rock? Va bene così ragazzi.