Oltre venti minuti di piano sequenza per una scena che racconta un parto in casa così realistico che mi si sono rotte le acque. Questa è l’apertura di Pieces Of A Woman, grande cinema e grande storia.
Ci voleva proprio dopo tanta fuffa caricata sui vari Netflix, Prime Video e Disney Plus. Che il lungometraggio avesse uno spessore un po’ diverso dal White Chicks di turno si capiva già dal fatto che fosse stato presentato al Festival di Venezia e che la protagonista Vanessa Kirby (praticamente identica ad Ilary Blasi) si fosse portata a casa la Coppa Volpi come migliore attrice. Ma è l’idea del plot l’arma in più.
Martha e Sean stanno per avere una bambina e vogliono farla nascere in casa ma – senza rischio di spoiler, perché questa è proprio la scintilla narrativa da cui s’accende tutto l’intreccio – il parto finisce in tragedia. Da qui iniziano a formarsi le crepe nella protagonista che vede la sua vita andare in pezzi tra distanze crescenti col compagno e pressioni della famiglia che preme per fare causa all’ostetrica presente durante il travaglio.
Pieces Of A Woman è un film che parte bene e si chiude meglio: non a caso l’ha prodotto un certo Martin Scorsese che di boiate ne fa poche; non a caso si tratta di una sceneggiatura ispirata ad una storia realmente accaduta (e poi romanzata), scritta dalla felice penna di Kata Wéber; non a caso (è l’ultimo, giuro) è la prima fatica americana di Kornél Mundruczò, dal cognome impronunciabile ma dal talento cristallino.
L’opera è davvero intensa ma non pesa mai, perché da subito si empatizza col dramma e ci si affeziona ai disastri emotivi di queste persone. Qua e là, poi, si è coccolati da intelligenti simbologie del regista che dissemina la pellicola di ponti in costruzione che non vengono mai finiti, semi di lenticchia che vengono amabilmente curati come nuova vita da attendere e rapporti sessuali sempre più aridi dove il nudo integrale degli attori (volutamente non estetico) diventa essenziale per sottolineare lo squallore del coito. Cioè?
Significa che il pisello di Shia LaBeouf, raggrinzito e non troppo in forze, diventa elemento narrativo quanto certe inquadrature volutamente sbagliate. Fa strano avere un primissimo piano di Martha quando a parlare è Sean ma la vita è così. La vita non riesce a montare le scene in modo impeccabile come certi prodotti hollywoodiani. E poi arriva l’unico elemento di finzione che, a sorpresa, è la cosa più bella.
Un po’ come un’elegante punta di Natale su un albero di classe, il monologo della mamma anziana di Martha (interpretata dalla splendida Ellen Burstyn) è potenza pura: una donna la cui memoria e personalità iniziano a sgretolarsi per via di un incipiente Alzheimer non riesce a dimenticare la forza con cui è venuta al mondo e con cui s’è tenuta aggrappata ad esso. Le sue parole sono la ragione per cui esiste Pieces Of Woman… per ricordarci che un fallimento non è una sconfitta e che la perseveranza (scusate ma considero il termine “resilienza” fastidioso) è ciò che dirime le nostre sorti.
L’opera sembra fatta per piacere ai critici e invece prende il cuore della gente comune. Perché ognuno di noi ha vissuto momenti di auto-distruzione ed ognuno di noi ha baciato almeno una volta sulla bocca l’autocommiserazione. Le donne impazziscono, gli uomini riflettono. Durante le due ore del film nessuno afferra il cellulare per cazzeggiare su WhatsApp, e non è poco in questa epoca di distrazioni costanti dal nulla in cui viviamo.