Perché l’avvicendamento di Netanyahu non è così scontato

Siamo sicuri che il Primo Ministro israeliano in carica abbia i giorni contati? Ecco perché potrebbe invece restare in sella ancora a lungo.

 

 

Nei giorni immediatamente successivi all’attacco di Hamas in territorio israeliano, Benjamin Netanyahu è stato messo sulla graticola dai media internazionali e dall’opposizione interna. Ai loro occhi, Netanyahu è colpevole di aver adottato una linea dura ed intransigente che avrebbe esasperato i palestinesi fino ad averli portati ad attaccare Israele.
La lettura degli organi di stampa occidentali è però come spesso accade parziale, ed omette numerosi elementi che invece sono necessari per comprendere l’equazione.

Che Netanyahu sia un falco e che penda per un approccio più drastico non è certo una sorpresa; è infatti proprio per questa caratteristica che il settantenne politico del Likud ha convinto la maggioranza degli elettori israeliani a votare nuovamente per il partito che rappresenta. Questo è un dato di fatto che spesso chi non gradisce un determinato governo o Primo Ministro tende a scordare: Netanyahu è stato eletto e scelto dal popolo, non si trova al comando di Israele per la terza volta in vent’anni per caso.

 

 

Le accuse mosse al leader israeliano sono per un verso fondate: di sicuro non ha agevolato il dialogo coi palestinesi. Eppure sono gli stessi palestinesi a non aver voluto il dialogo; e la rottura, se mai c’è stato un reale tentativo di avvicinamento, è avvenuta nel 2006, quando le elezioni legislative in Palestina hanno visto i moderati di Al-Fatah messi da parte in favore di Hamas votata da circa la metà della popolazione palestinese. Hamas è sempre stata una formazione dura, intransigente, incapace di dialogare, non a caso a forte trazione islamica radicale e i cui miliziani si sono resi autori recentemente di efferate esecuzioni a sangue freddo. Insomma, sono stati per primi i palestinesi (perlomeno in questo frangente storico) ad aver voluto interrompere un dialogo avviato ai tempi di Rabin e Arafat.

 

 

Entrambi i popoli hanno preferito affidare il proprio destino a fazioni di falchi; e Netanyahu non è altro che l’uomo forte che gli israeliani hanno scelto per proteggerli dalle pressioni islamiche ed arabe ancora prima che dai palestinesi. Non è fortuito il non intervento di Hezbollah nel conflitto in corso: Netanyahu ha intessuto rapporti così fitti con lo storico alleato statunitense che, grazie agli effetti domino che si sarebbero generati, le forze più vicine all’Iran e alla Russia sono ancora alla finestra.

La situazione di tensione in Israele non terminerà a breve; dopo l’operazione militare tesa a neutralizzare Hamas (e ben sappiamo che i movimenti islamici non sono mai completamente neutralizzabili) ci sarà da gestire il risentimento palestinese e le possibili ritorsioni internazionali. Siamo proprio sicuri che per Israele sia meglio farsi guidare da una colomba nel prossimo futuro e che i grandi intellettuali occidentali sappiano cosa sia meglio per il piccolo Stato sotto assedio da settant’anni?

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