La situazione lungo il confine nord-orientale della RDC è sempre più instabile, e il gruppo paramilitare del M23 sembra esserne uno degli artefici.
La situazione geopolitica dell’africa centrale desta preoccupazione. L’area, estremamente popolata e al centro di interessi strategici internazionale, è scossa da una nuova ondata di violenze, in essere da anni ma ricominciate con vigore lo scorso novembre, quando centinaia di testimonianze di uomini e donne congolesi hanno puntato il dito sul gruppo ribelle M23, un corpo paramilitare creatosi in seguito agli accordi del 23 Marzo 2009 fra il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo e il governo della Repubblica Democratica del Congo.
L’oggetto del contendere principale è la regione del Kivu, un territorio confinante con Ruanda e Uganda famoso per la ricchezza del sottosuolo in termini di materie prime come il coltan, il germanio, l’oro, l’argento e il manganese; esattamente come nel periodo coloniale dunque quella specifica regione dell’Africa centrale è martoriata da sanguinose guerre e violenze a causa della sua ricchezza, che tutto genera fuorché benessere per il popolo congolese.
Il conflitto nel Kivu e le successive guerriglie interne si innestano in quel discorso culturale e geografico che è la zona di confine fra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo (RDC), un territorio i cui confini sono stati tracciati secondo dei criteri di spartizione che non hanno tenuto conto delle componenti etnico-tribali che caratterizzano quell’area; il confitto fra Hutu e Tutsi è ad esempio storicamente uno dei principali motivi di tensione dell’area, e il coinvolgimento di civili sia congolesi che ruandesi in questo contesto non fa che esacerbare la tensione fra i due gruppi etnici e i due stati sovrani coinvolti.
Trovare una soluzione all’interno di uno scenario così complesso ed intricato non è un’impresa facile, e infatti sembrerebbe che anche le potenze internazionali non vogliano calarsi all’interno di una tale situazione che potrebbe portare non solo ad un impegno militare, ma anche e soprattutto ad un blocco o ad un rallentamento dell’approvvigionamento e della conseguente lavorazione delle preziosissime materie prime del sottosuolo congolese orientale.
Una prima soluzione è stata quella della mediazione condotta dalla Comunità dell’Africa Orientale (CAO) e in particolare dal Kenya, lo Stato militarmente ed economicamente più importante dell’area e con i maggiori interessi coinvolti, visto che un conflitto internazionale nell’area potrebbe danneggiare gli affari, soprattutto turistici, dello Stato keniota; l’inasprimento del conflitto e delle violenze iniziato a maggio del 2022 però ha portato alla formazione di un contingente regionale militare guidato dal CAO (senza ovviamente la partecipazione di Ruanda e RDC) per stabilizzare la situazione nell’area ed arrivare ad un cessate il fuoco.
Al momento tuttavia la soluzione promossa dal CAO non sembrerebbe aver riscosso successo, ma al contrario l’escalation di tensione parrebbe essersi acuita al punto da portare all’allontanamento dalla RDC dell’ambasciatore ruandese; con molta probabilità dunque c’è necessità di una mediazione dall’ampio respiro internazionale, che coinvolga tutte le maggiori potenze e che abbia come scopo quello di accertare con obiettività la realtà della situazione e le colpe di uno o dell’altro stato nella gestione dei conflitti e nel supporto a gruppi ribelli come quello dell’M23.
La strada delle sanzioni potrebbe essere una di quelle percorribili, tenendo però conto che ovviamente questa scelta potrebbe aggravare la situazione di Stati con all’interno problematiche sociali già ampie ma comunque meno gravi di quelle a cui andrebbero incontro in seguito ad un conflitto militare aperto; purtroppo la tensione politica fra due stati non si allevia soltanto con le parole e gli accordi, ma con delle azioni concrete che devono mirare al ripristino di una situazione stabile e giusta.
Il Ruanda dovrebbe rispettare i confini sovrani della RDC, ed evitare di foraggiare il gruppo M23 con l’intento di destabilizzare un’area sicuramente affine per culturale e matrice tribale, ma comunque appartenente ad un altro Stato; il confine ormai c’è, e non si può spostare, come non è possibile ipotizzare uno spostamento di popolazione fra un paese e l’altro per appianare le divergenze culturali visto che molto probabilmente l’interesse per l’area è dato dalla sua ricchezza e non dalla sua composizione demografica.
Ancora una volta i confini africani si dimostrano per quello che sono: la separazione arbitraria di un territorio la cui complessità non è stata ancora capita, ma i cui danni si stanno già contando da molto tempo.