L’uranio, gli Usa e la Russia: un girotondo di patti, sotterfugi e alleanze

Gli USA si sono battuti con forza per l’applicazione delle sanzioni nei confronti della Russia di Putin, salvo poi aggirarle per sua maestà l’uranio.

 

 

Gli Stati Uniti d’America sono il primo Stato al mondo per potenza nucleare installata e prodotta nel proprio territorio; con i loro 99 reattori infatti gli Stati Uniti sono in grado di produrre mediamente circa 800 TWh all’anno, ovvero il 20% della loro produzione elettrica totale.

Immaginare una potenza come gli Stati Uniti disposta a rinunciare al 20% della propria energia elettrica, considerato soprattutto il tipo di società e l’ideologia che la caratterizza, è pressoché impossibile; questo probabilmente è ciò che hanno pensato anche i membri del Governo americano, ed è proprio per questo che Washington ha preferito scendere a compromessi con lo storico nemico russo.

USA e UE dall’inizio del conflitto in Ucraina hanno perpetrato una strategia fatta di boicottaggi e sanzioni mirata a destabilizzare l’economia, la politica e la società russe; la speranza infatti era quella di stringere un cappio economico sempre più stretto intorno a Mosca tale sia da impedirle il proseguo della campagna ucraina, sia da provocare una spaccatura fra la società e la politica russa impersonificata da Vladimir Putin.

La resistenza russa è stata però probabilmente sottostimata, così come l’importanza delle importazioni energetiche americane provenienti dalla Russia; l’uranio infatti ha continuato e continua ad essere normalmente importato in grandi quantità dagli USA, mentre i russi non solo hanno continuato a vendere il loro prezioso elemento agli Americani, ma hanno continuato imperterriti (con alti e bassi) la loro avanzata nel territorio ucraino, favoriti anche dallo spostamento dell’attenzione internazionale verso l’area palestinese.

 

 

Gli USA sono consapevoli di questa loro ipocrisia geopolitica: l’amministrazione Biden aveva come progetto quello di finanziare con 2,1 miliardi di dollari la formazione di una catena industriale di arricchimento e conversione dell’uranio composta dalle maggiori aziende statunitensi e dalle più importanti aziende del settore dei Paesi alleati (Francia, Paesi Bassi e Australia su tutti); ad oggi ovviamente non è stato fatto praticamente nessun passo avanti in questa direzione, e il risultato è stato un aumento vertiginoso delle importazioni di uranio russo nel 2022.

Cosa comporterà questa situazione in futuro? Probabilmente finirà purtroppo prima la campagna in Ucraina che la dipendenza americana dall’uranio. L’amministrazione Biden infatti è ai suoi ultimi mesi, ed è concentrata unicamente nell’intralciare (inutilmente) la strada verso la presidenza a Donald Trump; la Russia invece non sembrerebbe minimamente intenzionata a cambiare una situazione che la pone in vantaggio rispetto allo storico rivale a stelle e strisce.

La probabile vittoria di Trump alle prossime elezioni statunitensi sarà un elemento che, nonostante l’imprevedibilità di una figura tutt’altro che politica come quella del Tycoon, scombinerà certamente le carte in tavola: Trump non vorrà inimicarsi ulteriormente la Russia dell’amico Putin con altre sanzioni o finanziamenti militari all’Ucraina (nella logica dell’America first, detesta aiutare economicamente gli alleati); allo stesso tempo vorrà rimarcare il ruolo di potenza egemone degli USA in grado di decidere le sorti della politica internazionale.

 

 

Gli scenari sono dunque molteplici, così come molteplici sono le sfaccettature politiche di un personaggio probabilmente impossibile da analizzare con chiarezza. La certezza è che, tuttavia, gli USA, con Trump o dopo Trump, dovranno rivedere il comparto della loro produzione energetica, magari intensificando la transizione verso la green energy (quella vera) e smaliziandosi nei confronti del nucleare (risorsa un tempo conveniente che, in seguito alle questioni geopolitiche odierne, ammantate sempre maggiormente da vesti nazionalistiche, sta perdendo il suo appeal nella società americana).

L’ipocrisia politica che domina il nostro tempo e che trasuda da questa faccenda è chiara. In una platea politica internazionale post-moderna come quella che viviamo è già abbastanza misero scorgere le nette divisioni in blocchi che intercorrono fra i vari Stati; individuare poi i sotterfugi con i quali gli attori politici di ognuno di questi Stati scendono a compromessi con presunti Stati nemici, imponendoci tuttavia una narrazione che glissa su queste partnership e accentua la divisone fra buoni e cattivi, è ancora più pietoso.

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