L’obiettivo di Netanyahu è lo sgombero forzato della Palestina

La guerra contro Hamas si sta protraendo per un motivo ben preciso: la rimozione dei nemici di Israele dall’interno del suo ventre molle.

 

 

In Palestina è in atto una manovra militare talmente ardita che ancora nessuno l’ha compresa per quella che è: un tentativo di sgombero forzato della popolazione da un territorio che si incunea all’interno del territorio israeliano tanto da metterne a rischio la sicurezza, come ha dimostrato il raccapricciante attacco di Hamas ad inermi civili lo scorso 7 ottobre.

Netanyahu ha deciso di andare fino in fondo: di concerto con le Forze Armate, il Primo Ministro israeliano ha puntato in questi mesi a far spostare man mano la popolazione palestinese sempre più a sud, a ridosso col confine egiziano; e l’attacco su Rafah, apparentemente imminente o già iniziato mentre scrivo, sarebbe finalizzato non solo all’eliminazione degli ultimi battaglioni di Hamas, arroccati presso l’ultimo centro urbano non ancora raggiunto dalle truppe israeliane, ma anche a spingere i civili a fuggire verso l’unica direzione sicura: quell’Egitto i cui vertici politici stanno però facendo costruire in fretta e furia un muro proprio per impedire ai palestinesi di riversarsi oltre confine.

 

 

Dal punto di vista puramente della ragion di Stato, la manovra di Benjamin Netanyahu è perfetta: visto come Hamas ha trasformato la striscia di Gaza in un coacervo di cunicoli e zone fortificate, utilizzando le sovvenzioni degli Stati occidentali per scavare chilometri di tunnel e per accumulare armamenti ed esplosivi, ha deciso dopo la presa di Gaza di risolvere il problema palestinese una volta per tutte; e come sempre avviene in guerra (con l’eccezione, limitata, della Prima Guerra Mondiale), le popolazioni civili pagano un loro tributo, anche importante, come vittime collaterali dei combattimenti.
Israele non sta certo andando per il sottile; nei bombardamenti sono circa ventimila i palestinesi civili rimasti uccisi. Ad onor del vero, lo stesso esercito israeliano ha tentato di limitare le vittime indicando delle vie di fuga più o meno sicure e fornendo dei periodi finestra all’interno delle quali muoversi; eppure le stime parlano di circa 20000 civili palestinesi rimasti uccisi (chi parla di 35000 ci aggiunge i guerriglieri di Hamas).

 

 

La morte di tutte queste persone è inequivocabilmente un dramma, ma occorre considerare che da sempre Israele lotta per la propria sopravvivenza e non può utilizzare metodi morbidi; quando è successo il mondo arabo ne ha sempre approfittato, proprio come insegna il ritiro di Israele e dei suoi coloni da Gaza nel 2005, città diventata nei venti anni successivi roccaforte di Hamas.

Benjamin Netanyahu sta mettendo in atto una scelta politico-militare netta, chiara ed indiscutibilmente tesa alla difesa degli israeliani. Se quel Netanyahu che in troppi hanno dato per vacillante dovesse riuscire a far sfollare i palestinesi dalla striscia di Gaza, facendoli riversare in Egitto, e considerando le prove di alleanza in corso con Arabia Saudita e Giordania, alleanza evidenziatasi anche durante il recente attacco iraniano con missili e droni contro il territorio israeliano, Netanyahu potrebbe riuscire in un doppio miracolo: quello di mettere in sicurezza il fronte sud e allo stesso tempo rompere il fronte arabo anti-Israele, garantendo allo Stato della stella di David un diverso spazio di manovra figlio anche del nuovo scenario geopolitico derivante dalla nuova guerra fredda dove si stanno riformando i blocchi che abbiamo visto fino alla fine degli anni ’80.

Qualcosa di impensabile solo pochi mesi fa.

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