L’Italia e l’appoggio allo Stato d’Israele: una fitta rete di interessi

L’Italia ha sostenuto sin dall’inizio il diritto di Israele di difendersi dagli attacchi di Hamas; le motivazioni sembrano essere più economiche che politiche.

 

 

All’alba della nuova era del conflitto israelo-palestinese l’Italia, tramite il suo Ministro degli Esteri Tajani, ha immediatamente affermato la sua volontà di sostenere il diritto di Israele di difendersi dagli attacchi dell’organizzazione terroristica Hamas. Tuttavia, il 10 ottobre, giorno in cui si è votata una risoluzione in merito alla situazione palestinese, il Parlamento non ha approvato la sezione che dichiarava la politica espansionistica di Israele un fattore chiave, tanto quanto Hamas, per l’instabilità dell’area.

Sembra essere abbastanza oggettivo il comportamento neo-coloniale che lo Stato d’Israele ha perpetrato e continua a perpetrare nei confronti della popolazione palestinese, sempre più emarginata dalla propria terra natia e ghettizzata all’interno della stessa. Sembra altrettanto facile tuttavia ipotizzare che l’offensiva di Hamas sia una risposta a questo tipo di politica; eppure il Governo italiano al momento di votare la sopracitata risoluzione ha optato per individuare un solo colpevole in questa vicenda, Hamas.

I motivi sono diversi e spaziano dalla rete di alleanze (gli alleati USA sono ovviamente alleati di Israele) alle questioni energetiche: Israele è geograficamente un hub perfetto per immettere in Europa le preziose riserve energetiche del golfo. Il motivo principale però che ha spinto il governo italiano a difendere con tanta enfasi il diritto di Israele alla difesa è forse da rintracciare nella galassia delle preziose aziende italiane che operano in territorio israeliano.

 

 

Sul sito del Ministero per gli Affari Esteri è possibile rintracciare tutte le aziende italiane che attualmente operano con progetti attivi nello Stato d’Israele, e sin dal primo momento risaltano all’occhio l’importanza e la potenza economica esercitate da aziende come ENEL, Ferrero S.p.a., Intesa San Paolo, TimSparkle S.p.a. (gruppo Tim), e la STMicroelectonics; alcune di queste oltretutto sono aziende con una partecipazione diretta dello Stato italiano, come nel caso di Enel (31%), di Tim (9%) o STM (14%).

Tale presenza, valutata come altamente strategica, come nel caso di Tim e STM visti i comparti di cui si occupano (telecomunicazioni, componenti elettrici e semiconduttori), viene vista probabilmente come un asset da non poter dissolvere per la causa palestinese, soprattutto se questa è viziata dall’azione di un gruppo definito a livello internazionale come terroristico.

La difesa delle aziende italiane in terra israeliana assume poi ancora più significato se si contestualizza con il piano di privatizzazioni auspicato dal Governo Meloni per permettere allo Stato italiano di risanare le proprie casse; in pratica, dunque, lo Stato vorrebbe vendere le sue quote di partecipazione di alcune aziende ad azionisti privati (come nel caso di ENEL), e pertanto non sembrerebbe interessato a supportare nessuna spinta pro-Palestina in quanto queste potrebbero generare frizioni nocive per i rapporti fra aziende italiane e Stato israeliano.

 

 

Oltre alle aziende sopraelencate, va poi citata anche una delle aziende principali del panorama industriale italiano, ovvero la Leonardo S.p.a., il fiore all’occhiello dell’industria bellica italiana; questa azienda, le cui quote appartengono allo Stato italiano per circa il 30%, ha nello Stato d’Israele uno dei suoi migliori clienti, e proprio un anno fa ha avviato con lo esso una partnership finalizzata allo sviluppo di oltre cento start-up israeliane.

Le decisioni prese dallo Stato italiano in relazione alla Palestina sembrano essere state prese con una mano ben salda sul portafoglio e l’altra sugli occhi, con l’illusione forse che non assistere equivale a non esistere; tuttavia il problema permane, e rimarrà tale o finché Israele non opterà per una soluzione finale, o finché le autorità politiche statali più importanti non decideranno che non esistono asset più prolifici della pace e dell’autodeterminazione dei popoli.

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