L’elezione al Senato di Ignazio La Russa e la costante italiana del trasformismo

Ignazio La Russa è stato eletto Presidente del Senato, e la sua elezione ha mostrato tutti i limiti di un sistema politico ancora troppo trasformista.

 

 

La scorsa settimana si è tenuta l’elezione che ha visto la nomina di Ignazio La Russa come Presidente del Senato, seconda carica dello Stato, un atto che ha sancito l’egemonia politica del partito di Giorgia Meloni all’interno della coalizione di maggioranza; tuttavia la dinamica politica che ha portato La Russa alla presidenza del Senato ha lasciato già udire dei cigolii all’interno degli ingranaggi della maggioranza.

I senatori di Forza Italia, ad esclusione di Silvio Berlusconi ed Elisabetta Casellati, hanno infatti scelto di astenersi dall’elezione per il Presidente del Senato, probabilmente come conseguenza del mancato accordo fra i vertici di Fratelli d’Italia e Forza Italia sulla formazione del futuro governo di centrodestra, e in particolare sull’assegnazione di determinati dicasteri.

Il partito di Silvio Berlusconi ha presumibilmente provato ad imporsi politicamente all’interno della sua coalizione nonostante le percentuali, voltando immediatamente le spalle del partito ai suoi alleati; la decisione dei senatori di Forza Italia sarebbe potuta costare caro infatti alla nuova maggioranza.

Con i soli voti dei senatori di Fratelli d’Italia, Lega, Noi Moderati, Berlusconi e Casellati infatti La Russa avrebbe raggiunto 99 voti, una quota che non sarebbe stata sufficiente ad assicurargli il secondo scranno dello Stato; l’aiuto aritmetico e politico per il futuro governo però è arrivato da ben 17 franchi tiratori che, certi della sicurezza dell’anonimato, hanno operato alla spalle del proprio partito d’appartenenza sostenendo il candidato di Fratelli d’Italia.

 

 

Chi ci sia dietro questi 17 fondamentali voti al momento non è dato saperlo, e la speculazione su quale sia l’appartenenza politica di questi voti è fine a se stessa; la provenienza dei voti sarà probabilmente nota in futuro, quando cioè saranno noti i voti o gli spostamenti che consentiranno ad una maggioranza apparentemente traballante di governare.

Ciò che dovrebbe veramente far riflettere però è il peso che occupa l’etica all’interno della politica italiana, un valore che sembrerebbe non coincidere con la virtù trasformista, passata e presente, che caratterizza il nostro sistema democratico: una democrazia che quando non coincide con il potere sembra sempre essere incline a trasformarsi piuttosto che accettarsi.

 

 

La storia politica italiana è costellata di cambi di partito strategici, come il caso Scillipoti, o di alleanza politicamente irreali strette solo in virtù di elezioni imminenti presumibilmente con lo scopo di ottenere potere e spazi decisionali, posti in Parlamento e ministeri strategici; da dovunque provengano questi voti infatti provengono comunque da fazioni considerate politicamente avversarie e ideologicamente lontane.

L’elettore medio non arriverà mai presumibilmente alle soglie del potere politico, perciò non percepisce l’impatto che il potere può avere sull’etica individuale, ne tantomeno conosce e immagina l’intricata rete di alleanze personali che lega le stanze del potere ai singoli uomini o ai gruppi parlamentari, però conosce il tradimento, che con molta probabilità rende alle urne contribuendo alla diffusione del trasformismo anche fra l’elettorato.

Gli interessi permeano qualsiasi dimensione dell’esistenza umana, e sarebbe assurdo immaginare una politica scevra dagli interessi partitici o personali e incentrata solo sulle necessità di un paese; quando però questi interessi diventano la bussola con la quale tracciare la propria rotta parlamentare viene meno il patto che c’è tra eletto ed elettore, e quindi fra popolo e rappresentanza, una spaccatura che sta portando sempre meno elettori alle urne e che sta rendendo la politica italiana la brutta copia di una democrazia rappresentativa.

 

 

Sarebbe auspicabile che la politica trasformi il Paese, e non se stessa.

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