Kamala Harris in Africa: le speranze americane e lo spettro della Cina

Il vicepresidente americano Kamala Harris è in Africa con lo scopo di rafforzare l’influenza americana sull’area, ma gli ostacoli sembrano essere molti.

 

 

Ghana, Tanzania e Zambia sono le tappe del tour nel continente africano del vicepresidente americano Kamala Harris, un viaggio che rientra nel progetto americano di riconquista di consensi e alleati in un territorio ritenuto cruciale nel quale stanno imperversando le influenze della Russia e soprattutto della Cina.
Il rifiuto del Sudafrica a replicare con gli USA le esercitazioni navali fatte con Cina e Russia hanno acuito la sensazione americana relativa alla perdita di consensi nei vari Stati africani; per questo infatti il tour della Harris non rappresenta il primo viaggio istituzionale degli USA in Africa, ma è stato preceduto sia da quello della First Lady che dal segretario di Stato americano.

 

 

Dal 2021 la Cina ha costruito in Africa oltre 10.000 km di strade e ferrovie, 100 porti, 170 scuole e 80 centrali elettriche; inoltre la società di punta del comparto tecnologico cinese, la Huawei, ha avviato progetti volti all’implementazione delle infrastrutture informatiche e allo sviluppo della rete 5G locale, con il preciso scopo di aumentare la propria sfera di influenza e di primeggiare in quello che si pensa possa essere il mercato del futuro.

Il problema della perdita di terreno statunitense in Africa è probabilmente legato alla necessità tutta occidentale di esportare, oltre agli aiuti e al proprio know-how, anche una certa matrice culturale prettamente occidentale spesso in contrasto con le sedimentazioni culturali, gli usi e i costumi della maggior parte dei paesi africani: parità di genere, riconoscimento dei diritti alle persone non eterosessuali e laicità sono solo alcune delle tematiche culturali osteggiate da diversi paesi africani; tematiche nelle quali, al contrario, Pechino non è mai voluta entrare.

 

 

Se prima gli Stati Uniti erano la potenza per antonomasia, soprattutto dopo il 1989, Stato verso il quale tutti aspiravano in termini di modelli culturali e conquiste sociali, l’ascesa della Cina come superpotenza nello scacchiere internazionale sembrerebbe aver mostrato un alternativa in termini di cooperazione; Pechino infatti non sembra intenzionata ad assumersi il ruolo di modello, ne tantomeno a voler imporre il suo, ma piuttosto sembra interessante al mero dominio economico, come se questo  fosse l’unico mezzo veramente necessario attraverso il quale affermarsi come potenza egemone.

Gli Stati Uniti a differenza della Cina probabilmente non sono pronti a staccare il proprio dominio economico dall’imposizione del proprio modello sociale, probabilmente perché quest’ultimo è funzionale e necessario al primo; il picco della globalizzazione a trazione statunitense però sembra essere ormai passato e la politica cinese, più attenta a sviluppare un modello economico scevro da imposizioni o contaminazioni culturali, parrebbe essere la via prediletta in un periodo storico caratterizzato da un ritorno del sentimento nazionalista.

 

 

In questo senso il viaggio in Africa della Harris sembrerebbe essere l’ultima carta da giocare dal mazzo americano delle possibilità per convincere alcuni Stati africani che il proprio modello può generare scenari equi e più giusti, in cui anche una donna afroamericana può essere la vicepresidente dello Stato più potente del mondo; in altri termini la visita della Harris potrebbe essere una leva attraverso la quale muovere le coscienze sopite di tutta quella parte di popolazione africana convinta che la propria natura, di donna o di ateo o di omosessuale, possa comunque permettergli di affermarsi essendo se stessi.

La scommessa è molto alta, e potrebbe far tornare alla memoria la lotta culturale portata avanti dagli Inglesi in India per impedire che le donne indiane si suicidassero in caso di morte del marito (sati): qual è il confine fra giusto e sbagliato fra due sistemi culturali diversi? Dov’è l’imposizione e dove sono i diritti?

Gli USA forse non scenderanno mai dal piedistallo autocostruito del “giusto modo di essere società”, ma se non rivedranno la loro politica estera probabilmente scenderanno definitivamente da quello dell’egemonia.

Per condividere questo articolo: