Il paradiso di Stalin: comunisti italiani tra rifugio e persecuzione in URSS

Spinti dall’ideale comunista, molti italiani trovano rifugio in Unione Sovietica ma finiscono vittime delle purghe staliniane, traditi dal regime.

 

 

Molti comunisti italiani vedono nell’Unione Sovietica una terra promessa, un luogo dove costruire una società giusta e libera dall’oppressione del capitalismo e del fascismo. Con l’avvento del regime di Mussolini e la crescente repressione nei confronti degli oppositori politici, numerosi esponenti del Partito Comunista d’Italia fuggono dal paese, cercando rifugio nell’URSS. Lì trovano accoglienza, formazione politica e ruoli nelle istituzioni sovietiche. Alcuni vengono impiegati nelle scuole di partito, dove si preparano i futuri dirigenti comunisti, altri lavorano nelle fabbriche e nei kolchoz, mentre alcuni riescono addirittura a entrar a far parte della macchina burocratica sovietica. Per molti, l’URSS rappresenta l’unico luogo dove possono continuare a lottare per i propri ideali, lontano dalla persecuzione fascista. Ma il sogno di una nuova vita si trasforma presto in un incubo.

Negli anni ’30, Stalin avvia una serie di epurazioni conosciute come le Grandi Purghe, un’ondata di repressione che colpisce milioni di persone all’interno dell’Unione Sovietica. La diffidenza e il sospetto diventano la norma e chiunque venga considerato un potenziale nemico del regime viene arrestato, torturato e spesso condannato ai lavori forzati nei gulag o giustiziato. Le purghe colpiscono non solo i cittadini sovietici, ma anche i comunisti stranieri rifugiati in URSS, considerati potenzialmente pericolosi per la sicurezza dello Stato. Gli italiani, nonostante la loro fedeltà alla causa, sono tra le vittime di questa macchina repressiva. Il Partito Comunista d’Italia, esiliato a Mosca dopo essere stato messo al bando in Italia, si trova a operare in un clima sempre più ostile. I suoi membri vengono spiati, sottoposti a interrogatori e accusati, spesso senza prove, di essere spie fasciste o trotzkiste.

Molti italiani finiscono nelle mani dell’NKVD, la temuta polizia segreta sovietica, che li sottopone a processi farsa. Vengono condannati a pene detentive nei gulag della Siberia e della Kolyma, dove le condizioni di vita sono disumane: freddo estremo, lavoro massacrante, cibo scarso e malattie rendono la sopravvivenza quasi impossibile. Alcuni vengono fucilati immediatamente, mentre altri scompaiono nei campi di lavoro forzato, senza lasciare traccia. Tra le vittime di questa persecuzione vi è Tullio Macciò, un comunista italiano che, dopo essere fuggito dal fascismo, si rifugia in URSS nella speranza di trovare sicurezza; viene invece arrestato con l’accusa di essere una spia e condannato ai lavori forzati. Muore in prigionia, come molti altri suoi compagni. Simile è la sorte di Ottorino Perrone, Angelo Rossi e Giuliano Pajetta, che vengono imprigionati e interrogati con metodi brutali.

Alcuni riescono a sopravvivere e vengono riabilitati solo dopo la morte di Stalin nel 1953. La tragedia di questi italiani rimane per decenni taciuta: dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Partito Comunista Italiano mantiene il silenzio su questi eventi per non incrinare i rapporti con Mosca. Il legame tra PCI e URSS impedisce una condanna ufficiale delle purghe staliniane e delle persecuzioni subite dai militanti italiani; solo negli anni ’70 e ’80, con l’apertura degli archivi sovietici e il crescente dibattito interno al PCI, si inizia a parlare di questi episodi. Giornalisti e storici come Mimmo Franzinelli e Silvio Pons contribuiscono a gettare luce su questa tragica vicenda, rivelando il destino di molti italiani caduti vittime della macchina repressiva sovietica. Tuttavia, il riconoscimento ufficiale e la piena riabilitazione delle vittime avvengono solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

 

 

Oggi, la vicenda degli italiani comunisti perseguitati in Unione Sovietica rappresenta una delle pagine più oscure e meno conosciute della storia del movimento operaio internazionale. Questi uomini e donne, mossi da un sincero ideale di giustizia sociale, finiscono invece schiacciati da un sistema che non tollera il dissenso e che vede nemici ovunque, persino tra i suoi più fedeli sostenitori. Ricordare la loro storia significa rendere giustizia a chi ha pagato con la vita la propria fede politica e contribuire a una riflessione più ampia sui meccanismi della repressione totalitaria. La tragedia di questi disgraziati rappresenta in pieno la complessità del Novecento e il prezzo della cieca fedeltà a un’ideologia che, anziché garantire giustizia e libertà, si trasforma in strumento di oppressione e persecuzione.

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