De-dollarizzazione: che cos’è, quali sono le cause e i possibili risvolti per l’economia globale

Dopo 80 anni di monopolio del dollaro negli scambi commerciali, negli ultimi 10 anni il suo utilizzo si è ridotto del 20% circa. Ecco perché.

 

 

Il collasso di alcune delle più importanti banche americane nel primo trimestre 2023 (la Silicon Valley Bank prima e la Signature Bank poi) ha innescato una crisi bancaria negli Stati Uniti con conseguente declassamento del rating di credito di quasi tutte le principali banche private americane. Dietro al fallimento degli istituti bancari c’è l’aumento dei tassi d’interesse sui bond del Tesoro USA. Questo a sua volta è stato innescato da una riduzione della domanda di dollari americani nel mondo con conseguente decremento del valore dei bond che costringe le banche ad offrire tassi d’interesse sempre più elevati che ne erodono la liquidità. In questo contesto, quindi, la de-dollarizzazione è una delle principali cause della recessione prevista dagli analisti.

 

Che cos’è la de-dollarizzazione?

La de-dollarizzazione è un insieme di misure adottate dai Paesi al fine di ridurre la loro dipendenza dagli Stati Uniti e la loro esposizione al dollaro americano nelle transazioni commerciali, finanziarie ed economiche, attraverso il ricorso ad altre valute negli scambi o l’accumulo di riserve di valuta estera. Questo fenomeno sta assumendo un’importanza crescente in particolare a causa delle tensioni commerciali e politiche nate nel 2014, quando gli Stati Uniti hanno imposto restrizioni economiche alla Russia e ostacolato le transazioni commerciali del Cremlino attraverso lo strumento del dollaro. Nello stesso anno, Cina e Russia si accordano sull’utilizzo del Renminbi (Yuan), la moneta cinese, per l’acquisto del gas Russo. Infine, la pandemia di COVID-19 ha portato ad un aumento del debito negli Stati Uniti e un allentamento della politica monetaria, che potrebbe influenzare la fiducia degli investitori stranieri nel dollaro. Di conseguenza, non solo la circolazione della moneta americana nel mondo è diminuita significativamente, ma anche le scorte complessive di dollari nelle riserve delle banche mondiali, generando previsioni pessimistiche sull’utilizzo del “biglietto verde” nei prossimi anni.

 

 

L’ascesa del dollaro come valuta del mondo

Storicamente, il valore di una valuta dipende dal valore degli asset detenuti dal Paese che quella valuta la emette. Fino alla Prima Guerra Mondiale la moneta dominante per gli scambi commerciali globali era la sterlina. Dopo il ‘15-‘18, gli USA diedero inizio ad un processo di sostituzione della moneta a partire dall’accordo di Bretton Woods nel 1944, che istituì il cosiddetto sistema aureo indiretto grazie al quale il dollaro statunitense veniva ancorato all’oro con un rapporto di 35$ per un’oncia. Tutte le valute iniziarono ad essere scambiate in rapporto al valore del dollaro: detenere dollari equivaleva quasi a possedere oro. Nel 1970, l’accordo di Bretton Woods fu quasi annullato dopo lo scioglimento del London Gold Pool, cosa che consentì alle economie asiatiche di riprendere la propria crescita. Per questo motivo, l’anno successivo il presidente Nixon annullò la convertibilità del dollaro in oro, slegandolo così dagli asset detenuti dagli USA. In questo modo, il suo valore dipendeva solo dalla domanda globale e non dalle attività possedute dal governo americano. Poi l’avvento dei “petrodollari” a seguito degli accordi tra USA e Arabia Saudita, in base ai quali il prezzo del petrolio venne ancorato al dollaro, contribuì ulteriormente ad aumentare la domanda del biglietto verde incrementando la stampa di moneta americana tanto che, alla fine degli anni Novanta, quasi il 90% del commercio mondiale avveniva in dollari. La fine della guerra fredda negli anni ’90, l’espansione dell’economia americana e, in tempi più recenti, il boom dell’Information Technology (IT), hanno ulteriormente rafforzato il potere del dollaro sul mercato.

 

L’utilizzo del dollaro

Il predominio del dollaro in ambito internazionale non è solo legato ad aspetti finanziari, ma anche commerciali ed economici. Un ruolo determinante nella de-dollarizzazione lo ha avuto la Cina, oggi tra i maggior importatori al mondo di petrolio, che nel 2018, sulla Borsa di Shangai, ha creato un future sul petrolio, garantito con una copertura in oro e scambiato in Yuan. Recentemente, inoltre, Pechino ha stretto accordi con l’Arabia Saudita al fine di calcolare il prezzo del petrolio in Yuan. Con la guerra in Ucraina e l’uscita obbligata dallo SWIFT, la Russia è stata costretta al congelamento delle ultime riserve di dollari sui mercati russi. A questo si aggiunge anche l’opera dei Paesi del blocco BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), a cui si uniscono Venezuela, Malesia e Australia, che hanno iniziato a sottoscrivere nuovi trattati commerciali, utilizzando monete sostitutive al dollaro americano.

 

 

Quali sono gli effetti sul mercato?

La de-dollarizzazione potrebbe comportare sia conseguenze dirette sul mercato americano che indirette sulle economie dei Paesi europei e mondiali. Il minor utilizzo del dollaro porterebbe a una riduzione delle importazioni americane, con conseguente riduzione del fatturato per le aziende nazionali e relativi contraccolpi economici nel vecchio continente. Una minore domanda in dollari potrebbe incrementare il costo dei cambi e, come tale, quello delle importazioni, con un nuovo incremento generale dei prezzi al consumo che metterebbe in discussione gli effetti delle politiche economiche volte a contrastare l’aumento inflazionistico. Infine, la questione della stabilità geopolitica: il minor utilizzo del dollaro minerebbe il ruolo degli Stati Uniti, in quanto superpotenza democratica, economica e militare, garante dell’equilibrio a livello internazionale. Di contro, se effettuato in maniera graduale e non al solo scopo di ostacolare gli interessi economici e politici di una singola Nazione, la de-dollarizzazione potrebbe favorire le relazioni tra i Paesi, rafforzando l’idea del libero scambio e aprendo nuove opportunità in ambito commerciale.

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