Il nome di un piccolo paesino è diventato il simbolo della grande battaglia che ha fatto arretrare le linee italiane fino al Piave, rischiando di porre fine all’esperienza bellica italiana con una sconfitta che avrebbe sicuramente cambiato le sorti della Prima Guerra Mondiale.
Quando l’Italia decise di entrare in guerra a fianco dell’Intesa, dichiarando guerra all’Austria-Ungheria il 23 Maggio 1915, un certo ottimismo accompagnava la nazione e le truppe. Il vecchio impero, seppur più popoloso ed industrializzato, si ritrovava a combattere su più fronti: in Galizia fronteggiava le truppe zariste, mentre nei Balcani tentavano di piegare le armate serbe. Era facile quindi pensare che l’apertura del fronte italiano avrebbe dato il colpo di grazia agli imperi centrali e spostato sensibilmente l’equilibrio della guerra in favore dell’Intesa. Così non fu, almeno fino al 1918.
Gli italiani attaccano, l’esercito austriaco difende e lo fa bene, tanto che nel 1917, dopo due anni di conflitto, poco è stato ceduto. Sopra Trieste non sventola la bandiera italiana, nonostante le 11 offensive sull’Isonzo, costate tanto in termini sia economici che umani.
Il 1917 è un anno difficile per l’Austria, dentro i confini si muore letteralmente di fame e tutte le risorse vengono direzionate verso i vari fronti. Nel frattempo, anche la Romania si è unita all’Intesa, aprendo il fronte transilvano, sottraendo ulteriori forze. Gli alti comandi decidono di alleggerire la pressione sul fronte italiano, troppo vicino al porto di Trieste, e inoltrano una richiesta di aiuto agli alleati tedeschi. L’idea è quella di far ripiegare gli italiani fino alle posizioni iniziali e ristabilire le posizioni difensive iniziali.
La richiesta inoltrata a Von Hindenburg, capo di Stato maggiore tedesco, viene accettata e dopo un sopralluogo sul fronte dell’Isonzo, viene creata una nuova armata composta e guidata da truppe tedesche fatte affluire nella zona, che dovrà fungere da punta di diamante nell’offensiva. Hanno poco tempo per i preparativi, nelle zone alpine l’inverno arriva con largo anticipo, ed è già Settembre inoltrato. In poche settimane una quantità ingente di materiale bellico e di uomini raggiunge le posizioni designate, con lunghe marce notturne, nel tentativo di mantenere l’operazione segreta.
Le notizie tuttavia arrivano agli alti comandi italiani. Attraverso ricognizioni e disertori, che forniscono persino la data precisa e dove avverranno gli attacchi, cade il velo di segretezza. La reazione però non è quella che ci si potrebbe aspettare. Cadorna, allarmato ma non del tutto convinto, agendo forse con poca risolutezza, ordina alla 2° e 3° Armata di passare dalla posizione offensiva a quella difensiva e prepararsi al meglio per un eventuale attacco austriaco. La 3° Armata si adegua in tempo al nuovo ordine, pur mantenendo i reparti pronti per un’eventuale contro offensiva. La 2° Armata invece, pur ricevendo l’ordine, mantiene l’artiglieria e il grosso delle truppe in una posizione molto avanzata, il che porterà al disastro.
L’inizio dell’offensiva è prevista per il 22 Ottobre per poi essere ufficialmente posticipata al 24 Ottobre, ultima data disponibile per un’offensiva così imponente tra le strette valli alpine. Un totale di 350 mila soldati aspettano di riversarsi sulle posizioni nemiche, con l’ausilio di circa 2500 pezzi di artiglieria a garantire la potenza di fuoco necessaria ad aprire la strada verso la pianura padana. Di fronte a loro, due armate non del tutto pronte e non abituate a un assetto difensivo. La battaglia di Caporetto, conosciuta anche come dodicesima battaglia dell’Isonzo, sta per iniziare.