Brave New World: la recensione

Brave New World è un buon album in cui solo due pezzi non sono all’altezza della bravura che gli Iron Maiden hanno dimostrato.

 

 

Da poco è uscito l’ultimo lavoro degli Iron Maiden, questo Dance Of Death che tanti dubbi sta suscitando, a partire dal titolo e dalla copertina. Come tradizione della Tana però, facciamo un passo indietro e andiamo a tirare le somme del precedente Brave New World, il disco che sanciva il tanto atteso ritorno di Dickinson dietro al microfono. Avevo detto che l’avrei recensito e quindi eccomi qui, con forte ritardo, certo, ma come al solito mi piace prendermela comoda.

In precedenza avevo anche detto che probabilmente Brave New World sarebbe stato un buon disco e anche questo si è rivelato esatto. In effetti, i Maiden hanno saputo celebrare in un ottimo stile il ritorno in formazione del loro cantante storico, e questo disco ha rappresentato una bella sorpresa per parecchi fan delusi (giustamente) dalle uscite precedenti. In Brave New World si possono lievemente assaporare alcune delle atmosfere presenti nel mitico Seventh Son Of A Seventh Son, anche se in maniera molto meno maestosa e, a volte, i nostri vanno a sfiorare anche qualche sonorità progressive (Blood Brothers). In generale lo stile è leggermente meno duro rispetto allo standard, ma in questo caso il risultato è comunque pregevole. Il brano di apertura è il singolo apripista The Wicker Man che, semplice e orecchiabile, ripropone tutti i classici stilemi tipici dei Maiden, specie nel ritornello.

La seguente Ghost Of The Navigator innalza ulteriormente la qualità dell’album e, a mio avviso, è uno degli episodi più riusciti dell’intero lavoro: riesce ad equilibrare benissimo melodia e potenza e ci regala un pathos in piena armonia con la tradizione del gruppo. Lo stesso si può dire per la title track che, al pari della canzone precedente, è una delle migliori del lotto. Ma ora arriva il vero capolavoro, la canzone che magari non si ascolterà più spesso, ma di sicuro quella che lascia maggiormente il segno: Blood Brothers è un’opera che racchiude l’essenza degli Iron moderni. Come detto prima, c’è qualche accenno al progressive, ma tutto è estremamente gradevole e mai stucchevole. Il riff centrale, splendido, composto da chitarre e tastiere insieme, viene esaltato in un crescendo, anche dal cantato di Dickinson, poco prima dell’assolo. Un capolavoro. The Mercenary potrebbe essere la classica traccia-riempitivo, ma resta comunque accattivante e molto gradevole, sia nelle strofe che nel refrain, e scusate se è poco. Il colpo originale, invece, arriva con Dream Of Mirrors.

 

 

Il delicato e particolare pezzo iniziale è davvero delizioso nel suo alternarsi con il ritornello che poi sfocia in una bella cavalcata finale. Si prosegue sempre su alti livelli con The Fallen Angel, per la quale vale lo stesso discorso fatto per The Mercenary, ma qui la qualità del pezzo è ancora superiore. Vi chiederete: ma finora ci sono solo pezzi belli? Allora è un vero capolavoro! Vera la prima, ma la traccia inferiore alla media è sempre in agguato e si materializza sotto forma di The Nomad che, a parte un fascinoso intermezzo, risulta piuttosto stonata con i suoi ritmi eccessivamente orientaleggianti. Out Of The Silent Planet è il secondo singolo del disco; canzoncina easy con un ritornello che è la quintessenza dell’orecchiabilità… carina. La chiusura, invece, è in calo: la lunga (anche nel titolo) The Thin Line Between Love And Hate non ha le caratteristiche che permettono ad un pezzo tanto corposo di non risultare noioso e ripetitivo.

Conclusione: Brave New World è composto da dieci brani, di cui solo due, secondo me, possono essere giudicati “non positivi”. Un prodotto eccellente quindi? Beh, non esageriamo. Possiamo sicuramente definirlo un buon disco, ma l’eccellenza in casa Maiden risponde solo ai titoli dei veri capolavori anni ’80. Però bisogna dire che con questo album, Harris & Co. hanno riscattato un periodo davvero oscuro nella loro carriera. Sicuramente è un disco che nessun fan del gruppo dovrebbe perdere e che molti altri amanti di un rock duro potrebbero certamente apprezzare. Certo, ormai lo standard del sound è lontano dalla durezza di un Piece Of Mind, e tutto si aggira intorno ad un metal molto più ragionato e molto meno pesante, ma i risultati sono comunque notevoli.

Abbiamo tutti tirato un particolare sospiro di sollievo soprattutto per quanto riguarda la produzione. Stavolta, infatti, Harris ha pensato molto di più a suonare il basso e ha lasciato il grosso del lavoro a Kevin Shirley che ha finalmente riportato in auge le chitarre e ha eliminato quel terribile bass-sound che opprimeva le precedenti produzioni. Una pecca è che ancora una volta i Maiden non hanno lasciato tutto il lavoro di copertina alla sapiente penna del buon Derek Riggs, il cui talento viene sempre più soffocato dalla computer grafica (la copertina di Dance Of Death è ripugnante…). Speriamo che l’artista di tanti successi riesca nuovamente ad imporsi “nature”. Insomma, con l’inquietante ombra di un Dance Of Death che non preannuncia nulla di buono, possiamo almeno sancire la completa riuscita di un Brave New World che ci delizia con pezzi di ottima fattura. Io personalmente godo soprattutto del ritorno di Adrian Smith, che in fase compositiva e stilistica ricomincia a far sentire la sua presenza, e spero che lo standard regga su questi livelli. Dance Of Death non lo fa intendere purtroppo, ma speriamo comunque di avere altri dieci-quindici anni di buoni Maiden. Chissà…

RESIST!

 

Brave New World, 2000
Voto: 7
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