A Tribute To The Beast: la recensione


Molti gruppi si sono riuniti per realizzare questo lavoro diviso in due CD. La domanda però sorge spontanea: “È un tributo degno degli Iron Maiden”?

 

 

Se i padri dell’Heavy Metal sono di norma considerati i Black Sabbath, di sicuro gli Iron Maiden ne sono almeno gli zii. Proprio alla fine degli anni ’70, quando il Punk rischiava di soffocare il Metal, The Soundhouse Tapes, il primo demo album dei Maiden, giungeva a ridare nuova forma e nuovo vigore ad un genere che sembrava destinato a morire. È indubbio quindi, che gli Iron siano uno dei capisaldi storici del Metal e che tanti gruppi moderni debbano loro molto in termini di ispirazione. Come di consueto in questo genere musicale, il disco tributo non poteva mancare e, a dir la verità, i Maiden ne vantano già più di qualcuno. Tra gli altri titoli mi sembra di aver letto anche uno Slave To The Power e un singolare Made In Scandinavia.

Comunque, proprio pochi giorni fa, ho messo le mani su uno di questi episodi, quello che più di altri campeggia in questo periodo sugli scaffali dei negozi. Forse grazie al fatto di essere pubblicato dalla famosa Nuclear Blast e di annoverare qualche gruppo di primissimo piano, A Tribute To The Beast sembra essere il tributo più popolare al momento per quanto riguarda il gruppo di Harris. La raccolta in realtà è composta da due volumi separati, ma io purtroppo posseggo solo il primo e tanto per iniziare vi parlo di questo, sperando prima o poi di potervi raccontare qualcosa anche sul secondo.

La domanda di rito che ci si pone di fronte ad un disco tributo è la solita: i pezzi saranno all’altezza degli originali che si prefiggono di omaggiare? A malincuore esprimo la mia personalissima opinione: credo di no. A Tribute To The Beast (vol. 1) ha un errore di fondo: molti dei gruppi coinvolti nel progetto sono gruppi death o black, e il cantato growl, per quanto bene sia fatto, difficilmente si adatta ai pezzi degli Iron Maiden. Così, insieme a qualche bella cover e a brani che si difendono pur non esaltando, abbiamo anche molti classici che risultano piuttosto storpiati.

Ad aprire le danze ci sono gli Steel Prophet, che mantengono il loro classico stile di gruppo Metal abbastanza equilibrato e ci ripropongono delle convincenti versioni di The Ides Of March (quale opener migliore?) e Purgatory. Già, per una volta l’intro strumentale non è seguita dalla solita Wrathchild, che purtroppo verso la fine del disco viene letteralmente ridicolizzata dai Six Feet Under con un growl eccessivo (tipo Cannibal Corpse per intenderci). Seconda traccia ai Children Of Bodom, che coverizzano una Aces High accattivante dal punto di vista strumentale, più veloce e travolgente. La pecca, come previsto, è la voce. Anche qui il cantato death di Laiho non c’azzecca un bel niente. I Rage, invece, onorano la splendida The Trooper con una versione non troppo distante dall’originale e che si fa ben apprezzare.

Le aspettative fremono terribilmente quando mi appresto ad ascoltare Hallowed Be Thy Name rifatta dai Cradle Of Filth! Se i gruppi death deludono, cosa potrà fare un gruppo black di vampiri come loro? Stupire! Il growl c’è, ma in questo caso il pezzo lo accoglie senza troppe pecche e non è per niente da buttare. Certo, mentre nella versione originale si poteva provare un po’ di pietà per il protagonista che narrava il suo avvicinarsi al patibolo, il demone maligno che qui interpreta la stessa parte non dà di sicuro l’idea di un povero innocente…

Non si smentiscono i Grave Digger, che ci riservano un’arrembante e gradevole versione di Running Free, mentre la Prowler riproposta dai Burden Of Grief passa senza lasciare traccia: solito growl inadeguato e parte strumentale molto simile all’originale. I Sonata Arctica coverizzano degnamente Die With Your Boots On ma comunque senza suscitare troppe lodi. Stesso discorso per i Therion, impegnati con Children Of The Damned. Nell’originale, la parte del leone la facevano proprio gli acuti di Dickinson, qui invece, in pieno stile Threion, la voce è tutta giocata su toni bassi.

 

 

Per fortuna ci si riprende alla grande con gli Iced Earth che rivitalizzano splendidamente la strumentale Transylvania, rendendola più scandita e decisa rispetto all’originale. Altra prova discreta la offrono gli Opeth, che stavolta accantonano il vocione cavernoso e in Remember Tomorrow ci sguazzano come delle paperelle nello stagno, proprio grazie all’alternanza di momenti lenti e rabbiosi, pratica in cui i nostri sono dei veri maestri.

Ora il baratro. Due capolavori consecutivi dei Maiden stuprati senza pietà. Roba da galera. I Sinergy tentano di cimentarsi in The Number Of The Beast, ma la loro cantante, che è donna ma cerca di cantare come un uomo, è capace di distruggere tutto. In pratica sembra di sentir cantare un trans. Non dico altro. Anzi sì: vergogna! Il fondo però, si tocca con i Disbelief (mai sentiti, ma di sicuro sono ignorante io…) che sono talmente disastrosi in Stranger In A Strange Land che non sono nemmeno riuscito ad ascoltarla tutta fino in fondo. Non c’è traccia dell’atmosfera affascinante dell’originale e le urla sguaiate del vocalist (per modo di dire) sembrano solo lo sbraitare senza senso di un folle. Bisognerebbe rigare il CD in quel punto con uno scalpello per cancellare per sempre tale scempio dalla faccia della terra. Da sedia elettrica!

Come raramente succede però, dopo il buio più profondo può anche spuntare una splendida luce e gli spagnoli Tierra Santa sfornano quella che è forse la più straordinaria cover che io abbia mai sentito. Un pezzo che da solo vale l’acquisto del disco. Una Flight Of Icarus reinterpretata magistralmente in una versione modificata, con tutta la parte precedente all’assolo lenta, affascinante e carica di feeling. Il cantante offre una prestazione emozionante e quasi poetica. Un vero capolavoro.

Il finale della compilation purtroppo non è agli stessi livelli e perfino i miei amati Dark Tranquillity non riescono a fare un buon lavoro con 22 Acacia Avenue. Il motivo è sempre la solita voce e stavolta devo muovere la critica anche a Michael Stanne, uno dei miei cantanti preferiti; bisogna saper essere obiettivi… Della pessima esecuzione di Wrathchild da parte dei Six Feet Under ho già detto all’inizio, mentre in chiusura c’è una Powerslave piatta, melensa ed insignificante ad opera dei Darkane. Tristezza…

Ecco dunque le inesorabili conclusioni. A Tribute To The Beast raccoglie una manciata di 16 classici degli Iron Maiden riproposti da vari gruppi moderni. Pochi pezzi sono davvero esaltanti, altri sono ad un livello medio e alcuni sono delle terribili storpiature. Non è comunque un disco da gettare dalla finestra. Steel Prophet, Rage, Iced Earth e soprattutto gli strepitosi Tierra Santa, hanno il merito di salvare questo tributo da un totale fallimento. I fan dei Maiden potrebbero apprezzare questi episodi positivi ma devono farsi forza di fronte ad alcuni veri e propri scempi. A questo punto sarei davvero curioso di ascoltare qualche altro tributo agli Iron Maiden tanto per poter fare qualche paragone, ma non capisco come mai gli altri siano tanto irreperibili.

Il concetto resta comunque chiaro: il growl non può essere adatto per reinterpretare i pezzi di Dickinson e DiAnno. A Tribute To The Beast deve probabilmente la sua fama al nome della Nuclear Blast, ma questo non basta per renderlo realmente valido e i gruppi protagonisti dovevano essere sicuramente scelti in maniera più oculata. Occasione persa dunque, anche se non disastrosa, ma quando si parla di Iron Maiden una striminzita sufficienza non può certo soddisfare. Peccato.

 

A Tribute to the Beast, 2022
Voto: 6
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